Critico teatrale, docente universitario, giornalista ed esperto di Performing Media, che viene da un termine da lui stesso inventato. Infante ci parla di Cultura e Performing media in rapporto al contemporaneo e con un discorso sulle nuove tecnologie.

 

Sei sempre stato interessato agli scenari culturali scanditi dall’evoluzione tecnologica. A proposito di ciò ti chiedo, come immagini sarà la cultura del futuro?

Credo che il futuro sia direttamente proporzionale a ciò che vogliamo che sia. Anche se è evidente come possa esserci una forte componente di casualità. Il futuro è comunque qualcosa che dobbiamo creare noi, è una condizione abilitante. Mi viene in mente a proposito una citazione dello scrittore canadese William Gibson: “il futuro è già qui. E’ solo mal distribuito”. Rende l’idea dell’evoluzione umana associata alle diverse opportunità, come quelle offerte dalle tecnologie digitali e del web in particolare, che troppo spesso vengono inibite da chi ha interesse a frenare l’innovazione. Per quanto riguarda questo ragionamento sulla cultura dell’innovazione, partirei dall’esempio di Prometeo (che significa “colui che pensa prima”). Prometeo è non solo il dio-archetipo delle tecnologie ma anche della cultura perché incarna la tensione verso il futuro, guarda avanti, proietta una visione.  Per me la cultura è di per sé sinonimo di futuro perché genera visioni del mondo: qui risiede la chiave per la nostra emancipazione, la capacità di stare al mondo, interpretandone gli sviluppi ed è grazie a questo che possiamo considerarci uomini liberi. Allo stesso tempo nel concetto di cultura è insito il concetto di cambiamento che ha senso compiuto quando ci si misura con un valore tradizionale da cui partire e, possibilmente, emanciparsi. Per quanto riguarda il rapporto della cultura con la tecnologia, si tratta di qualcosa che c’è sempre stato e che risiede nel fatto che la tecnologia è qualcosa che nasce prima di ciò che è stato poi definito cultura e arte. Quest’ultima è una parola latina, ars ,che arriva secoli dopo quella greca di techne. Il mio impegno culturale da sempre è focalizzato sulle dinamiche del cambiamento, ed è dagli anni Ottanta che mi occupo di tecnologie digitali (nel 1984 trasmisi con l’M10 dell’Olivetti che il quotidiano Reporter mi aveva affidato un mio testo per via telematica). Questo mio percorso di ricerca è strettamente connesse al concetto progressivo di cultura che si compie nel trasformare le tecnologie in linguaggio.

Secondo te, la tecnologia digitale come oggetto performativo e quindi parte integrante dello spettacolo, farà definitivamente parte del mondo delle arti performative?

 Questa cosa di unire la tecnologia alla performance è inscritto nel ragionamento che abbiamo appena fatto. La tecnologia è di fatto un’estensione, una protesi delle facoltà umane. Sia dal punto di vista fisico che cognitivo. Penso a come la tecnologia teatro sia stata fondamentale per sdoganare la nuova tecnologia alfabetica. La civiltà occidentale è nata proprio grazie al teatro che nel decodificare il codice alfabetico attraverso la mimesi del corpo ha permesso di arrivare alla polis.

La performance di un corpo in movimento davanti ad altri che guardano, attiva i neuroni specchio del nostro cervello (definiti tali da poco più di un decennio, proprio in Italia)  grazie ai quali s’innesca un processo di apprendimento innervato all’empatia. Se vediamo un corpo in movimento, riusciamo a capire quello che sta facendo, colmando con la nostra immedesimazione, per   poi trarne un significato, imparando (come allora, alle origini del teatro e del conseguente sviluppo alfabetico) così ad associarlo a delle parole combinate all’azione. Un insegnamento emblematico per formare la società: si parte dal corpo e si utilizzano tecnologie cognitive, quale sono sia l’alfabeto sia il teatro, per espandere le potenzialità interumane.  Questo ha molto a che fare con la mia esperienza di critico militante che già negli anni Settanta con le Avanguardie teatrali cercava di stringere il rapporto tra linguaggi scenici e contemporaneità. L’avanguardia ha incarnato per decenni il valore dell’ innovazione anche se oggi parlare di avanguardia è ormai residuale, se non in termini di storicizzazione dei percorsi di ricerca. Un bel paradosso storico ma emblematico e utile per cogliere i principi della mutazione culturale in corso.

In quell’innovazione creata dalle avanguardie nel secolo scorso è possibile rilevare le costanti originarie per comprendere le dinamiche della mutazione culturale e del valore d’uso della tecnologia, a partire dal pensiero non-lineare e la propensione al rischio e al gioco.

In quegli anni, tra i primi nel mondo, in Italia abbiamo sperimentato i nuovi linguaggi elettronici del  video associandoli ad un contesto performativo. In quel contesto coniai la parola “videoteatro”, dopo aver visto Tango Glaciale del gruppo Falso Movimento di Mario Martone.  E’ da quello stesso percorso che deriva il fenomeno del Performing Media, altro neologismo che da qualche mese campeggia nella Treccani.

Con questo concetto però si inizia a parlare dei media come qualcosa che esprime una valenza performativa autonoma.  I sistemi digitali raddoppiano le loro potenzialità ogni 18 mesi, dice Moore, quello dei microprocessori Intel. E noi? La grande scommessa antropologica dell’innovazione si gioca qui. Nel raddoppiare anche noi le nostre potenzialità. Ed è qui che serve la capacità creativa trasmessa come valore generativo dal mondo delle avanguardie. La soluzione non è certo nell’uso standard o ingegneristico delle tecnologie, dobbiamo inventare pratiche e contesti anche semplicemente con il mash up: mischiando tra loro plug in e applicazioni diverse. Riequilibrando l’offerta montante di tecnologia con la nostra domanda culturale: quella che genera visioni del mondo, per interrogarlo.

Qual è lo stato dell’arte circa l’interazione sociale e culturale con i nuovi media?

Prima, alla fine degli anni Novanta, erano soprattutto delle intuizioni connesse alle sperimentazioni sulla “scrittura mutante” (un progetto sviluppato nell’ambito del Salone del Libro di Torino) ma oggi le dinamiche dei social network stanno cambiando tutto, impattando con la società tutta.

Il guaio è che ci sia una nuova generazione di utenti che si stia sorbendo tutto, in una sorta di acquiescenza verso i social network, come se fosse scontato tutto questo sharing. Il rischio è nell’indebolimento della coscienza civica, perché si va a  delegare troppo ai social media e il mondo in questo modo può diventare eterodiretto. Allo stesso tempo penso che l’intelligenza connettiva,  ovvero quel principio per cui le relazioni scaturite dalla connessione tra persone, idee e molteplicità dei punti di vista, possa sviluppare un vero anticorpo sociale agli automatismi opachi delle reti.

Questa dinamica orizzontale dello scambio culturale nel web, inteso come nuovo spazio pubblico,  può modellare l’uso dei social media e tradurlo a tutti gli effetti in opportunità.

Credi che sia possibile oggi parlare di cultura come di qualcosa che produce valore e posti di lavoro, oltre che conoscenza?

Certo che è possibile, ma purtroppo c’è ancora qualche ignorante che non ha ancora capito (o non vuole o non gli conviene) cosa sia sostanzialmente la cultura. Molti di questi ignoranti sono proprio tra coloro che si definiscono intellettuali.

Per esempio c’è chi definisce opera d’arte qualsiasi decoro barocco in una chiesa senza pensare che quella forma era a suo tempo design e comunicazione.

In questi anni in Italia più che altrove i decisori delle politiche culturali non hanno capito quanto sia importante l’innovazione culturale come chiave per interpretare il tempo per tradurlo in opportunità produttiva. E qui ritorniamo alla figura di Prometeo, colui che riflette prima, un emblema perché rompe gli schemi gerarchici e rischia sperimentando con la nuova tecnologia del fuoco. Scombina per poi ricombinare opportunità, politiche e poetiche dell’innovazione. A partire da questo riferimento prometeico penso che si debba sempre partire da una tradizione per superarla, questa è l’evoluzione culturale. Non nego certo la memoria e la tradizione in quanto Heritage. Questa parola va però interpretata nel suo significato di innovazione di processo, heritage significa “eredità”. Va quindi intesa come qualcosa da trasmettere, indicando anche una nuova consapevolezza d’uso e non solo di rendita. Il  patrimonio inteso come eredità da trasmettere non può più essere concepito solo come un valore sedimentato e statico. La tutela del patrimonio va intesa in termini dinamici, rivolti alla valorizzazione.

Oggi purtroppo non si ascolta il proprio tempo e l’offerta culturale risulta in buona parte autoreferenziale,  obsoleta e di conseguenza annoia, soprattutto i giovani. In questo modo non si può produrre valore, non s’innesca nessun processo virtuoso. La cultura deve servire per inventare il lavoro. Il lavoro più che cercato va creato partendo dalla peculiarità maggiore del nostro Paese, la biodiversità. La soluzione-chiave è nel valorizzare i territori.

Qui rientra anche il concetto di memoria . La memoria è il mantenimento del fuoco e non la conservazione delle ceneri.

Questo è un concetto che andrebbe preso a modello sia per chiarire il concetto originario di cultura sia per guardare al futuro e inventare nuovi posti di lavoro. Un’indicazione per sapere reinventare il nostro sguardo sul patrimonio culturale e ambientale e così rigenerarne il valore perché sia trasmissibile come un’eredità vera.